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NELLE MENTI DEGLI ISIDE

Inizia tra il 2019 e il 2020 il percorso degli Iside, con i primi singoli pubblicati confluiti poi nel disco Anatomia Cristallo: sospeso tra l’elettronica e il pop, caratterizzato da atmosfere sonore in grado di catturare gli stridenti conflitti interiori, è un concept album che nelle sue varie tappe racconta un collage di frammenti di vita. Originari di Bergamo, la provincia ha sempre avuto un ruolo essenziale nel loro immaginario (presenza costante ma mai soffocante): è all’universo al di fuori della città che spesso lo sguardo si rivolge. In Memoria, il nuovo disco, scende ancora più a fondo nella loro anima, aggredendo con una sincerità spiazzante l’ascoltatore. Cade ogni barriera tra la realtà sonora e il vissuto quotidiano, perché quando scrivere, cantare, suonare, diventa una necessità, distaccarsi dalla propria esperienza diventa impossibile. In una costante oscillazione tra disincanto totale e la ricerca di una possibile liberazione, il nuovo lavoro degli Iside riesce ad indagare la loro profondità diventando allo stesso tempo un racconto universale: quale modo migliore di analizzarlo se non facendocelo raccontare da Dario Pasqualini (frontman della band)?

Il vostro album è appena uscito e avete da poco iniziato il tour, passando anche per palchi importanti come quello del Mi Ami. Come sta andando? Come vi sentite nel presentare il disco al pubblico?

Siamo sempre stati molto legati alla dimensione live: stiamo girando, ma ci sembra paradossalmente di essere ancora troppo fermi. Al Mi Ami è stato bello perché è un posto dove ti senti sempre compreso. Il nostro è un progetto medio piccolo e a volte quando giriamo per l’Italia ci capita di sentirci, in alcune situazioni, fuori luogo, mentre festival come il Mi Ami sono in grado di darti una scarica di adrenalina che fa bene. Era la prima data dopo due anni dal disco precedente: si è trattato di un momento molto importante a livello personale, di liberazione.

Nella scrittura di In Memoria sono predominanti elementi molto personali, che emergono con sincerità e senza filtri. Da dove nascono l’ispirazione e l’esigenza di mettersi a nudo in questo modo?

È un disco in cui non ci sono filtri. Era il più grande desiderio che avevo quando ho cominciato a lavorare sui testi: mi sono reso conto che ormai mi sta molto antipatica la musica generalista che non è affatto personale. L’ho sempre pensato, certo, ma negli ultimi anni ho cominciato a sentire sempre e solo frasi retoriche, le stesse parole, le stesse dinamiche. Le questioni dolorose vengono banalizzate, e sapevo benissimo di non voler cadere in quella rete. Al di là di questo, era anche un’esigenza personale. Forse non è stato il momento più brillante della mia vita, ma nella musica ho la possibilità di risolvere questa dinamica: mi fa bene, e non potevo sprecare l’idea di uscire con un disco che fosse quanto di più sincero potessi dare. Lo vedo come un inizio solido, stabile, una partenza dopo la quale tutto quello che scriverò sarà onesto, anche quando mi sentirò più risolto e felice. L’idea non è stata ragionata a priori, ma da subito ho voluto essere spiazzante, a volte scomodo. Molte frasi potrebbero essere lette con preoccupazione da parenti, genitori, amici, ma era necessario porle in quel modo.

DNA, il secondo singolo, è uno dei brani che da subito colpisce anche nel contesto più vasto della tracklist soprattutto per il modo in cui rabbia, disincanto e stanchezza vengono raccontati e portati sul piano della musica. Come è nato?

DNA è un pezzo esemplificativo del disco, per i suoni, le emozioni che cerca di dare, ma anche per un concetto più generale. In quel pezzo volevamo analizzare le motivazioni per cui siamo in questo modo e le motivazioni per cui l’album suona così, quindi è una narrazione, quasi un ipotetico diario. C’era l’esigenza di fare un brano del genere, bello veloce per quel che riguarda la produzione. All’inizio non era neanche così ritmato, ma anzi, era più disteso, epico, simile a Funerale. Mi sono però poi reso conto che nel testo emergono delle cose che hanno una cattiveria – sana – di fondo: emerge la volontà di risolvere le situazioni in cui mi trovo a modo mio e la consapevolezza delle motivazioni che mi hanno sempre guidato. Abbiamo scelto di inserire una batteria perforante, che per tre minuti è sempre su; insomma, una bella prova live.

Il disco è caratterizzato da sonorità elettroniche anche molto aggressive, alternata a brani dove in realtà è una melodia più scarna a prevalere. Quali sono state le vostre ispirazioni soprattutto nell’ultimo periodo? Nel vostro metodo di lavoro, come nasce l’impronta musicale?

Quel bipolarismo sonoro è sempre esistito, anche nell’altro disco. Ci sono momenti, anche all’interno dello stesso pezzo, dove la dinamica è altissima, tutto è saturo, distorto, ma poi all’improvviso arriva la parte introspettiva. Ho cercato di analizzare questa impostazione da un punto di vista differente: ho sempre vissuto in una casa abbastanza piccola, in un condominio, dove non mi è mai stato concesso di fare casino come avrei voluto. Ho sempre scritto a bassa voce, con la chitarra classica, ma nella testa già immagino quanto potrei spingere a livello vocale.
Appena arrivo in studio provo subito a sfogare quello che ho visualizzato, facendo emergere tutto ciò che prima era rimasto in silenzio. A livello di sound, abbiamo passato molto tempo a cercare di comprendere quello che volevamo, dove volevamo arrivare. È un lavoro dove si sente di più la coesione della band, che fa emergere la nostra parte più ancestrale. È emersa la sonorità più indie rock inizio duemila, per me essenziale, che in Anatomia Cristallo la produzione invece tendeva a tenere sotto controllo. Se devo dire dei nomi, non solo di ispirazioni evidenti, parto dagli Smashing Pumpkins e dal timbro di Billy Corgan, con il suo tono così fastidioso: o lo odiavi o ti piaceva parecchio. Importante è stata anche tutta la scena vicina ai The Streets, quella narrazione più provinciale, da sobborgo inglese. Poi, anche se non si sente molto, per me King Krule negli ultimi anni, avendolo anche visto live, è stato centrale, per quel che riguarda anche un discorso di sincerità dei suoni.

Una domanda non può non essere su HardDisk, il progetto audiovisivo che state portando avanti con l’uscita del disco: approfondiamo l’idea.

Giro quasi sempre con la mia Handycam. Documento quasi tutto, senza uno scopo preciso. Ci siamo resi conto a posteriori che questa cosa ci aveva fatto accumulare tantissimo materiale, contenuti vari, che si allineavano al concetto della memoria. Avevo tutte le fasi, le motivazioni, i momenti precisi, in cui sono nate determinate cose, che potevano essere mostrate in questo format. Quelle schedine da pochissimi giga sono diventati l’hard disk dei momenti del disco. Ad esempio, ci siamo io e Giorgio che scriviamo Addio in modo spontaneo, quando aveva comprato un pianoforte, o altre riprese più costruite che abbiamo fatto nel nostro paese facendo vedere il comune in cui siamo nati. È arrivata poi la consapevolezza di dire che questo materiale aveva affinità con la nostra musica e che di conseguenza sarebbe stato interessante farlo vedere.

Nel vostro lavoro, lasciate sempre che si percepiscano la provincia è uno sguardo che nasce lontano dalla città, ma queste atmosfere rimangono in secondo piano: perché?

Secondo me, il rapporto con la provincia è un senso di appartenenza che in fondo non deve essere così palesato. Questo discorso è essenziale, ci tengo a parlarne: penso sia anche un vanto dire che veniamo da un posto così, ma quando riascolto i brani sono contento del fatto che non se ne parli in modo eccessivo ed esplicito. Preferisco analizzare questo aspetto in un secondo momento, al di fuori della musica. È molto più bello quando nei pezzi fai sentire le emozioni, piuttosto che fare una carta di identità.

Con Addio, sembra esserci una liberazione finale dopo l’ascolto del disco. Si può dire che da atmosfere più cupe e opprimenti si arriva ad una sorta di nuova accettazione? Come si declina questo processo catartico nella dimensione live?

Addio è in una posizione strategica, è un pezzo che a livello di sonorità ha una vita propria. Un sound quasi più pop per quel che riguarda ad esempio la batteria. Sta lì in fondo come un effettivo saluto; riflettendoci bene, però, abbiamo pensato di guardare al disco come
circolare. Anche quando tutto finisce il desiderio che si continua ad avere è solo che qualcuno si ricordi ancora di te. Termina con Addio, ma potrebbe ricominciare. È una liberazione, senza dubbio: dopo la fine lascio a te la scelta, puoi cambiare album o ricominciare l’ascolto e rileggere tutto in altri termini. Nel live, quando definiamo le scalette, cerchiamo di arrivare all’apice alla fine. Il ricordo della conclusione deve essere rilevante, non finiremo mai con un pezzo troppo emotivo, ma cerchiamo di lasciare una certa impressione. Addio è una canzone complessa da inserire nei concerti, infatti penso che nelle scalette estive non la faremo e aspetteremo i club. È un brano così diverso da non potersi trovare nel fondo del live, ma se inserito tra gli altri cambia il colore del palco, quindi quando c’è più tempo a disposizione è interessante modificare la palette, giocare con le sonorità, per poi tornare da dove eri partito.