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L’ESTETICA RAVE

Anticonformista, ribelle e intollerante ad ogni forma di compromesso. L’estetica rave, da sempre portatrice di questi valori, è una forma di rifiuto di una società chiusa, oppressiva e allergica a forme di espressione personali “diverse”. Scomoda, esuberante, strafottente. Un’estetica talmente pura da essere tutt’ora il biglietto da visita di una delle ultime controculture rimaste nel mondo.
Nato come uno stile profondamente underground, spopola negli anni ’90 fino a diventare un’ispirazione persino per brand di lusso, nonché l’ennesima subcultura da spremere fino al midollo per fini meramente economici. Ma come ha fatto uno stile così esclusivo e spigoloso a diventare così riconoscibile per strada? Il percorso è lungo e bello tortuoso, perciò sedetevi comodi e prendete qualcosa da mangiare.


DOVE TUTTO EBBE INIZIO:
L’origine del movimento rave è collocabile in Gran Bretagna, si pone come una sorta di evoluzione della sottocultura dell’acid house e prende forma nelle periferie degradate del Regno Unito. Il mondo del clubbing già da allora si legò all’uso di droghe da party, soprattutto ecstasy, ketamina e MDMA. Proprio la non accettazione sociale delle droghe, unito ad una voglia frenetica di ribellarsi al sistema e all’occupazione di spazi pubblici, rese il movimento rave una controcultura. Ma come tutte le sottoculture che si rispettino c’è bisogno di un codice stilistico, un biglietto da visita, un segno d’appartenenza che permetta di essere riconoscibili per strada. E se i ravers sono così estremi e scomodi, il loro stile non può essere da meno. Se l’acid house prediligeva abiti firmati, con i rave si passa a tute da lavoro, salopette e abiti oversize. Ogni look aveva un’aggiunta di vivacità e colore, un pizzico di hippie, una manciata di perline colorate e qualche occhiale fluorescente.
Una città cardine per l’ascesa del fenomeno rave fu però Berlino, luogo dell’anima per tutti i clubbers d’Europa, in cui si iniziò ad organizzare feste rigorosamente illegali in bunker, magazzini e capannoni. La musica si fa più aggressiva, i bpm aumentano, la droga gira più velocemente e i look si fanno estremi. Il movimento si espande passo dopo passo, grazie a Frankie Bones e Adam X arriva a Brooklyn e da lì nasce il motto che tutt’ora rappresenta la base filosofica dei rave, PLUR. Peace, Love, Unity, Respect, un insieme di valori che simboleggiano il senso di fratellanza, di rispetto e di totale possibilità di esprimere la propria personalità, esente da giudizi.
Grazie al continuo dilagare dei rave in Europa con i quali i giovani anticonformisti dell’epoca potevano demonizzare e scacciare gli spettri di tutti i propri turbamenti sotto muri di bassi
minimali, anche gli outfit, evolvendosi, contribuiscono all’espandersi del fenomeno. In un periodo storico, quello dei 90s, caratterizzato dalla nascita del web e contornato dallo spettro degli anni
2000, i look si modificarono di conseguenza. Cyberpunk, futurismo e luci a neon, dai warp-around glasses alle tutine fluorescenti, dalle tute Adidas al tie dye, dalle acconciature improbabili al make- up glitterato. I rave iniziarono ad avere un’estetica precisa, estrema e studiata. Scoppia la Kandi Culture, amore e pacifismo ma anche libertà e edonismo sfrenato, ingabbiato dentro le pasticche di ecstasy. Tutto si fa colorato e sgargiante, i fili dei vecchi telefoni vengono usati come collane, gli accessori sono rigorosamente in plastica e le parrucche colorate diventano quasi un must-have.

LA CULTURA MAINSTREAM:
Negli anni ’90 l’estetica dei rave si espande a macchia d’olio, rimanendo però chiusa in contesti underground e quasi spaventosi da affrontare, non che non andasse bene ai ravers. Ma era una sottocultura troppo forte per non avere un canto del cigno nell’immaginario comune, allora serviva uno shock, serviva sganciare la granata che avrebbe sfondato le mura del mainstream. I nomi degli artificieri furono Liam Howlett, Keith Flint, Maxim Reality e Leeroy Thornill, noti come i Prodigy.
Una band che riuscì nell’intento di unire l’estetica rave e punk, la musica da club e il rock, creando un mix apparentemente senza senso che sfondò tutte le radio di quegli anni. Music For The Jilted generation è una pietra miliare della musica elettronica, ma è il secondo album, The Fat of The Land, che ebbe il ruolo di cavallo di troia nel mercato mainstream. Le scelte fatte dalla band sono più che azzeccate, così come i ruoli di ogni componente: Liam è la mente; Leeroy è il ballerino; Maxim canta e si contorce come un pazzo, e poi c’è Keith Flint, il frontman, l’uomo immagine, colui che grazie al suo stile è divenuto il volto dei Prodigy. Perché infatti è vero che la proposta musicale fu un fulmine a ciel sereno, ma è la scelta del look che cambiò le regole del gioco. Abbigliamento a metà tra Mad Max, un punk londinese e un clubber sotto acidi, Keith Flint ha letteralmente riscritto le regole dell’estetica da rave. Creste improbabili, vestiti oversize, gonne, borchie e scarpe iper-
larghe. I Prodigy riuscirono in un colpo solo a cambiare la musica e l’immaginario rave, facendo letteralmente incazzare chiunque. I primi tempi, infatti, la band creò talmente tanto caos che si risentirono tutti: i raver erano arrabbiati perché ciò che era esclusivo divenne popolare; i rocker/punk non volevano mischiarsi con quelli che erano considerati dei tossici reietti (i raver); ed infine le persone comuni, che erano scandalizzate dai look estremi di Flint&Company. Questo non fece altro che accrescerne la popolarità e nessuno riuscì ad assorbire l’onda d’urto di Firestarter e Smack My Bitch Up, spedendo i quattro inglesi nell’olimpo della musica e rendendoli delle icone artistiche e di stile.

IL RAVECORE:
Con il passare degli anni e l’affermazione di tutto l’immaginario rave nella cultura popolare, anche l’abbigliamento e l’estetica in generale hanno definito dei tratti comuni. Vestiti super oversize,
piercing, dreadlocks e creste sono i tratti più comuni dei ravers. Quello che sembra uno stile estremo e volutamente anti-fashion però, negli ultimi anni è spesso stato usato come l’ennesima sottocultura da spremere per tirare fuori nuove mode. Il cosiddetto Ravecore non è altro che uno stile che prende spunto dai retaggi stilistici dei rave, a partire dagli anni ’90 ad oggi. Nonostante un tempo potesse sembrare impossibile, diversi brand di lusso hanno portato questa tipologia di estetica addirittura nelle passerelle. Da Diesel a Balenciaga passando per Raf Simons, arrivando fino a designer emergenti come Skndlss o Asterisk. Una scelta dettata dal fatto che la moda ha iniziato a terminare le subculture da cui prendere ispirazione. Dopo aver prosciugato grunge, punk, skater e chi più ne ha più ne metta, l’estetica da rave è l’unica vera controcultura rimasta, forse troppo “contro” per farla diventare un fenomeno da social o passerelle. Essere un raver, infatti, non è portare dei capi specifici, ma è un senso di appartenenza a dei valori, a delle ideologie spesso
pericolose (e per questo scomode, sennò che controcultura sarebbe). Inizieremo a vedere l’estetica rave spopolare su Tik Tok? Ad avere il feed di Instagram intasato di outfit di questo genere come successo nell’ultimo anno con il y2k? Questo è difficile saperlo, ma la cosa certa è che ciò non
comprometterebbe quella che NON è una moda passeggera, ma uno stile di vita.