EFFETTI è una guida che unisce il mondo dell’arte a quello della musica, non c’è molto da dire, riprende esattamente il concetto base di SIAMO, l’unire diverse realtà con l’obbiettivo di rendere unico ciò che è già bello.
Beh… Godetevi questo format tutto fatto in casa dalla nostra Maria Paola Monti
GRAN FINALE di Drast
》Springtime by Pierre-Auguste Cot
Gran Finale è la canzone che più mi rappresenta in questo preciso momento della mia vita; Drast canta di un amore viscerale, che continua nonostante i problemi e che si sorregge sulla forza della volontà di farsi funzionare a vicenda.
Un amore basato su promesse e sussurrato a fior di labbra.
Il beat rilassato culla le emozioni portandole in superficie e le manipola come plastilina, sfruttando le pause e le accelerazioni per farci saltare i battiti come sulle giostre.
Gran Finale è una canzone cantata a cuore aperto, dolorante nell’amore che esprime: un’amore necessario quanto l’aria che respiriamo e violento quanto il fuoco estivo che lo fa ardere.
Per questo ho scelto di abbinarci Springtime, dipinto raffigurante due amanti le cui vesti intrecciate ricordano l’aria e il fuoco: come i due elementi, i due giovani si impegnano nell’alimentare e riscaldarsi l’un l’altro, con il loro amore che agisce da legante.
Aspettarsi è difficile, e lo è anche tentare di migliorarsi e di smussare i propri spigoli per incastrarsi meglio l’un con l’altro, ma è un gioco che vale la candela.
“Drunken”, viene definito lo sguardo che Pierre-Auguste Cot ripone negli occhi dei due amanti, ubriachi infatti della presenza dell’altro: si guardano come se avessero posto insieme le stelle nel cielo, con una complicità innata, come se fossero i fautori della bellezza che li circonda, come se fossero il tutto l’uno dell’altro e il resto del mondo non esistesse.
Perché anche con le mille insicurezze e problematiche che ci creano ostacoli, anche dopo i litigi più pesanti e le parole dure pensate solo per metà, il saperti “ancora mio” pone fuochi d’artificio nel mio petto, che strapazzano il mio cuore e ne ribaltano ogni prospettiva.
E quando le acque si calmeranno, quando potrò permettermi di sognare ancora e di vedere “casa” come tra le tue braccia, piuttosto che come il luogo che più ripudio, avremo il nostro gran finale avvinghiati nella presa salda che ci meritiamo.
CARMINA XVII di BLUEM feat. Tarta Relena
》Space Exploration/Universe by Menhat Helmy, 1973
Un pezzo ancestrale, dai toni magici e criptici al tempo stesso: non c’è da stupirsi se, ascoltando bene, scopriamo che Carmina XVII è in latino.
Più precisamente, il testo della canzone è costituito da un poemetto sibillino di origine tardo-antica chiamato “Mundus origo”; è un componimento apocalittico-escatologico, che quindi racconta, tramite le parole di una Sibilla greca, di quale sarà il destino dell’universo e degli uomini.
[Il mondo è la mia origine, l′anima ho ricevuta dalle stelle / il casto corpo, tutto lo
scuote Dio], recita il poemetto, rimandando alle influenze religiose, naturali e mitologiche a cui BLUEM si rifà in ogni suo pezzo, ma che stavolta accosta ad una fragilissima corporeità umana, che inizialmente mi ha fatto pensare più a Frida Kahlo che allo Space Exploration/Universe di Menhat Helmy.
Eppure, la mia scelta è ricaduta sull’artista egiziana, poco conosciuta dal mondo popolare, proprio grazie al concetto di corporeità: [Ecco, io mortale, ho divulgato il canto poetico che ho appreso.], recita la Sibilla, sottolineando il punto di vista della narrazione, quello di un essere umano, che esplora, che osserva, che interagisce con l’Universo.
L’Universo, infatti, ci sovrasta, ci vede come piccoli ingranaggi del suo grande piano, talmente immenso da non esserci comprensibile; è una sensazione che Helmy rende egregiamente nella sua opera: cupolare, con un pattern intricato, a metà tra un circuito elettrico e tra la difficile mappatura di una volta celeste.
L’intento dell’artista è di catturare il nostro sguardo e mantenerlo – più che sull’opera – nell’opera, inglobandoci totalmente all’interno di essa, obbligandoci all’esplorazione di questo labirintico universo che fatichiamo a comprendere.
BLUEM e Tarta Relena, ci suggeriscono infatti le parole di una Sibilla, voce degli dei e oracolo pensato apposta per gli uomini, per aiutarci a comprendere meglio la nostra finitezza, il nostro essere parte di un piano che ci coinvolge, ma che non ci riguarda.
Se al nostro zenit, infatti, possiamo osservare la volta celeste, solo quando “torneremo ad essere tra le stelle”, potremmo comprendere.
[[…] se ne sono degna, mi rapisca e l’anima consegni alle stelle. / Breve è la vita dell′uomo, che finisce e si dilegua con gli anni.]
PEGASO2 ICARO di EMMA
》Forme uniche della continuità nello spazio by Umberto Boccioni
Di Forme uniche della continuità nello spazio, mi ha sempre stupito la meccanizzazione del corpo rappresentato. Non ha braccia ben definite, ha gambe forti che trascinano avanti l’uomo, quasi controcorrente, controvento. Non ha un volto.
Umberto Boccioni appesantisce l’esistenza umana in modo fisico, evidenziando – accidentalmente – la fatica del trascinarsi, spesso schiacciati dalla propria turbolenza interna, e lo fa cromando di bronzo lo sforzo del dinamismo umano, che in quanto futurista egli vedeva come movimento stesso del quale gira il mondo.
Sebbene l’intento di Boccioni fosse quello di esaltare tale marcia, nel risultato finale dell’opera si può leggere una sofferenza non originariamente pensata, molto meno futurista e molto più neorealista, ma non meno attuale o condivisibile.
EMMA, infatti, parla di gambe che si muovono soltanto governate da un cuore che soffre, di idoli vuoti e di sentirsi un oggetto incompreso, e penso che la fatica dell’uomo di Boccioni sia l’esempio migliore che l’arte possa fornire per valorizzare questa sofferenza nel vivere.
Come a Icaro si sciolgono le ali, all’uomo di Boccioni mancano le braccia, perché il suo unico scopo è quello di proseguire, di camminare e andare avanti senza concedersi il lusso di soffermarsi, di essere semplicemente umano, soffice.
Come EMMA canta in pegaso2 icaro, i nostri volti sono interamente sostituibili da una maschera più ideale per chi ci sta intorno; allo stesso modo, l’uomo di Boccioni indossa un elmetto che lo traveste da uomo forte, da soldato, però annichilendo al tempo stesso i tratti umani del suo volto.
Anche il suono meccanico della base mi rimanda al concetto di macchina, di automa, all’interno del quale, però, si annida un’anima delicata.
SBERLA di ISIDE
》Fire by Yoshitomo Nara
Un connubio tra “cute” e “creepy”, così viene definita l’arte di Yoshimoto Nara, che si focalizza sulle emozioni semplici e crude dei bambini, spesso infatti rappresentati come arrabbiati.
Tuttavia, in Fire vengono messi in mostra sentimenti più complessi: Nara infatti, parla di un’opera tra l’infanzia e la crescita, dipingendo questa fase di ribellione all’interno degli occhi della bambina protagonista del quadro, che scruta attenta il fuoco appena appiccato.
Essendo un’opera a metà tra innocenza e ribellione, prevede un momento di realizzazione di sé stessi e di voler diventare grandi, un sentimento comune ai bambini, ma che malediciamo una volta cresciuti.
ISIDE, in Sberla, porta avanti proprio questa causa: il voler tornare bambini, quando tutto era più semplice, quando piangere era talmente facile da essere noioso e quando la nostra unica volontà era, paradossalmente, quella di crescere.
Questo bisogno ha mosso in noi la necessità di correre, di bruciare le tappe, e abbiamo finito con il non goderci il panorama, risultando quindi in adulti incapaci di stare bene.
Forse prendercela con calma sarebbe stata la chiave, goderci l’essere bambini senza il bisogno impellente di diventare grandi; avere le nostre ribellioni a tempo debito, aspettare che il cordone ombelicale venga legato, prima di reciderlo.
Forse, la formula per stare bene, è concedersi di non crescere mai del tutto, e di permettersi di avere ancora paura del buio.
.INDIVIDUI di .ANAMIRTA
》Mariana in the South by John William Waterhouse
Mariana in the South prende spunto da una poesia composta da Alfred Tennyson, nel 1833, e poi resa in olio su tela dal preraffaellita John William Waterhouse.
Narra di una delusione d’amore, dell’abbandono di Mariana da parte del suo amante, che la confina in un fatiscente castello circondato da un fossato, senza mai più tornare a riprenderla.
Il fossato è una metafora di cui Tennyson si serve per trasmettere la solitudine di un cuore ormai abbandonato, ma ancora legato a doppio filo all’amore viscerale che lo attanaglia: troppo profondamente coinvolto per lasciare andare, sebbene la condanna sia già stata scritta, si condanna due volte all’attesa infinita.
Nel dipinto di Waterhouse, la bellissima Mariana si osserva, in lacrime, nello specchio di ossidiana delle sue stanze: riconosce l’incredibile fascino del suo volto, ma lo maledice perché è stato investito interamente per un uomo che non la ama.
In .individui, è come se si svolgesse il passo oltre: se Mariana è ancora ciecamente innamorata di Angelo, il suo amante, e lo vorrebbe indietro disperatamente, .ANAMIRTA mette davanti sè stessa, e riconosce che quello specchio, con lei dentro, è stato infranto troppe volte dalle mani di qualcuno che non teneva a lei, che non la vedeva come preziosa abbastanza da maneggiare con cura, e che quindi non si merita di riaverla indietro, nonostante le suppliche.
Spesso siamo esseri fragili come specchi, e ce lo ricorda la voce cristallina di .ANAMIRTA, ma, proprio come specchi, cadiamo e ci rompiamo se manovrati con ruvidità.
URAGANI di Tripolare
》Study of Perspective – Series by Ai Weiwei
Controversa, la serie di Study of Perspective è una collezione fotografica di Ai Weiwei, che regala ad ogni angolo di mondo, spesso iconico come la Tour Eiffel o la Casa Bianca, il suo dito medio, seguendo un filone di opposizione e ribellione che caratterizza un po’ tutta la vita dell’artista e il suo percorso come tale.
Uragani racconta dell’odio per la distanza che separa due cuori che vorrebbero stare vicini, ma che sono obbligati in diverse città, in diversi letti, a rimirare diversi soffitti, vedendoci immancabilmente lo specchio dell’altro.
La parte che ha fatto scattare l’interruttore nella mia testa, per quanto riguarda la scelta dell’opera da abbinarvi, è il verso che ci parla del perdersi “nelle stelle di un’altra città”, l’ennesima, ma ancora una volta non quella giusta.
L’odio per la lontananza si riversa contro il luogo in cui ci si trova, che pare vuoto e privo di significato senza l’altra persona; è un valzer ballato lontani e di cui si odia ogni centimetro che separa le mani dal congiungersi.
Tripolare ci esemplifica il dolore della distanza con una voce straziata nonostante il beat allegro, ricordandoci che per amore si può fare tutto, anche prendere le scelte più scomode e lungimiranti, se significano seminare oggi per raccogliere abbondantemente in futuro.
UN GOCCIO D’ACQUA di IRBIS 37
》Decalcomania by René Magritte
IRBIS 37 è una mia scoperta recente, ma penso che sia giusto leggerne i testi con già una certa maturità psicologica annidata dietro gli occhi.
Anche perché, il perdere sé stessi non è cosa da tutte le età: l’apatia necessaria per riconoscere di essersi nullificati è qualcosa che sembra inarrivabile a tutti, una capacità del futuro che i piccoli, incapaci noi non sono ancora in grado di applicare.
Sembra una cosa paurosa, il semplicemente accettare di esserci alienati, il constatare che siamo a tutti gli effetti un guscio svuotato da ciò che c’era prima, che ora va riempito con cose nuove che ancora non conosciamo; è parte del crescere, ma non lo rende meno terrificante, anche a causa della confusione che accompagna questo processo.
“Ora vedo doppio e non colgo il punto”, “Fumo così ragiono senza dare di matto” recita infatti Un goccio d’acqua.
Questi sentimenti, però, sono esperienze condivise quasi universalmente, e lo possiamo trovare soprattutto nell’arte di René Magritte, che rende evidente questo svuotamento nella sua Decalcomania.
Il pittore crea un altro uomo a partire dalla silhouette del primo; è un uomo vuoto, specchio di quello che prova dentro di sé, e che ci pone davanti all’interrogativo: di cosa siamo fatti? Cos’abbiamo al nostro interno? Cosa ci rende noi?
È una domanda di cui non conosciamo la risposta, e come tutte le cose di cui non conosciamo ancora la risposta, ne rimandiamo la comprensione al futuro, quell’agglomerato di inquietudine e punti di domanda in cui è archiviato ogni nostro dubbio.
TOPI di Casx
》The Garden Of Earthly Delights by Hieronymous Bosch, 1490-1510
La chitarra dolce di Casx ci introduce in una visione del mondo fatto a gabbia, che la contiene e le impedisce di uscire.
Si sente intrappolata in un labirinto come un topo, da qui il titolo del brano, appunto Topi, ma è un labirinto che Casx sceglie per amore, più preoccupandosi dell’altro che di sé: il testo è pieno di “e se…?”, di preoccupazioni e timori legati al suo essere dannosa nei confronti della persona che ama.
Anche Casx è cosciente del fatto che nemmeno l’altra persona è in grado di abbandonarla, a causa del forte sentimento che anche essa stessa prova, ma l’artista le concede comunque il permesso di farle del male in rimando nel caso “ti distruggessi” o “non riuscissi ad amarti”.
Proprio il verso finale mi ha fatto realizzare che avrei potuto accostare a questo pezzo solo un’opera simbolica quanto lo è The Garden Of Earthly Delights, di Hieronymous Bosch: si tratta di un dipinto complesso, tripartito in Eden, Giardino delle Delizie Terrene e Inferno, che vede piccoli numerosi scenari, tutti incredibilmente e inerentemente umani.
Infatti, nel vero amore non c’è spazio per la perfezione paradisiaca, e Casx lo sa bene: l’amore può essere Eden, Giardino delle Delizie Terrene o Inferno.
RIVOLUZIONE! di Sethu e Jiz
》The Kiss by Gustav Klimt
Il beat rapido e ritmato di Rivoluzione! crea una base musicale energetica sulla quale raccontare una storia d’amore esplosiva come le bombe a cui la paragona.
Si tratta di un’adorazione travolgente, che “mischia l’odio e l’amore”, come canta Sethu; è un sentimento passionale che l’artista è determinato a mandare avanti nonostante l’irruenza di quando le cose si mettono male.
Per questo brano, ho scelto il famoso The Kiss di Gustav Klimt, che vede due amanti avvilupparsi l’uno all’altro e venire coperti da una vera e propria esplosione di colori, un tripudio di forme e figure che paiono inerenti ai soggetti stessi, più che a fior di pelle come un normale tessuto.
Klimt dipinse quest’opera in un momento di crisi, paragonabile al sentimento cantato nei primi versi di Rivoluzione!, ma tale periodo di turbolenza diede alla luce un dipinto così profondamente passionale da venire considerato come l’archetipo dell’amore nell’arte.
Quella di Klimt è un’arte violenta nel suo impatto visivo, tanto quanto lo sono le esplosioni di Sethu, ma l’amore che fa da padrone all’interno di entrambe le opere è innegabile e talmente radicale, da superare in potenza l’iniziale messaggio di turbamento.
Il giallo vivo di Klimt è ciò che da vita al dipinto, ma ciò che rende viva la musica di Sethu è il pulsare di un cuore pronto ad andare oltre alla veemenza di un’anima impulsiva.
GRAFICA A CURA DI: @nil0rap