Perché i giovani non hanno bisogno che i politici approdino su TikTok
Jeans falso consumati. Falso strappati. Pantaloni falso mimetici. Borse mimetiche. Capelli falso giovani, rossastri. In giro falsi rasta. Falsi gangsta, falsi rap. Falsi punk. Falsi giovani. Borchie falsamente utili. Magliette falso scolorite. Falsa vita vissuta. Falsa esperienza, falso inconscio, falso immaginario, falsa coscienza. Falsa la metropoli, falso il lavoro. Falso legno, falso antico, false le cacche di mosca su falsi mobili. Il falso grezzo nei ristoranti falso-fichetti, o vero-fichetti per falsi fichetti. Falsi gli hipster con false barbe folte lunghe tagliate quadre, false camicie da falsi boscaioli, birre falso-artigianali. False calvizie, falsi muscoli con tatuaggi falso tribali. Veloci sfrecciano bassi falsi pappagalli verdi, frutto del riscaldamento globale, anch’esso artificiale, posticcio.
La prima volta che ho visto Berlusconi su TikTok ho pensato al ritratto di una generazione narrato da Francesco Pecoraro nel suo testo Lo stradone (Ponte alle grazie, 2019). Ho rivisto i miei amici, ormai trentenni che discutevano della possibilità di voto per i ragazzi di appena sedici anni. Ho rivisto la fiumana di persone che quasi quotidianamente si interrogano su chi votare davanti ad un piatto di pasta, in strada e in casa; che parlano di politica senza filtri, senza imbarazzi; che commentano i programmi elettorali voltando le spalle ai propri ideali alla ricerca di salvare il possibile. Era un’immagine, un fotogramma che non riuscivo davvero a togliermi dalla mente quello di politici sbarcati sulla piattaforma TIktok per conquistare con fare ammiccante i voti di chi fino ad adesso è scomparso dalle agende politiche.
Si è parlato tanto e pure male in questo paese dei giovani. Sono stati definiti: “fannulloni” “deviati” senza considerare l’impegno, la pandemia, il terrore della guerra e la necessità di costruire un mondo più accessibile e sicuramente migliore. Il video di Calenda che balla, di Berlusconi che sceglie di pronunciare il nome della piattaforma con toni quasi bambineschi sono solo pochi esempi di una manifestazione ormai consolidata e assodata del nostro paese: la politica non appartiene a voi. Da giovane in questo paese mi alzo ogni giorno consapevole che dovrò combattere per un posto fisso, per uno stage retribuito in maniera equa, per fare tardi la sera sentendomi sicura quando cammino per strada, per avere una casa sulle spalle che mi consenta di condurre una vita dignitosa, per pagarmi un giorno un mutuo; e lo faccio cercando di abbattere ogni giorno il mondo del precariato e dell’incertezza.
La generazione dopo la mia si batte per un’istruzione più accessibile, per la possibilità di poter studiare anche lontano da casa senza dover necessariamente richiedere il costante aiuto dei genitori. Insieme noi chiediamo spazi culturali, ambienti nei quali si possa proporre un modello di vita non legato al fenomeno delle “influencer” ma sulla vera vita, quella che incontri nei volti della gente che cammina con te per strada senza dover mostrare un elicottero lussuoso.
La generazione prima della mia chiede di poter avere accesso ad un sistema di welfare che consenta di vivere la dimensione familiare, di poter contribuire al benessere dei propri figli e che possa essere garantito il futuro a lungo termine.
E così, per noi, vedere volti di politici sulle pensiline degli autobus, sui muri delle nostre città e in ogni telegiornale mentre il mondo va avanti era sufficiente. Non era necessario invadere il tempo libero per abbattere l’astensionismo allontanando il focus dal problema reale.
Così questa è la loro invasione di campo, il loro entrare nella multimedialità rendendosi ridicoli pagliacci di uno spettacolo che non ci fa ridere, ma ancora una volta ci insegna che il futuro in questo paese appartiene a chi fino a questo momento ci ha deriso.